Scrivo questo racconto ripensando a un momento della mia vita molto particolare. Il tempo è galantuomo e ha il merito di rendere meno dolorose anche le circostanze più difficili da dimenticare. Ne addolcisce il ricordo, almeno nelle loro forme più decise, conservandone quelle più tenui. Quando un fatto di vita viene ricordato a distanza di anni, diventa quasi impossibile riviverlo con le stesse emozioni di quando è accaduto. L’emotività del momento lascia il posto alla malinconia: chi lo rievoca è portato ad abbassare lo sguardo e a fare altrettanto col tono di voce, magari senza entrare troppo nei dettagli.
Anche a me è capitata una storia analoga. L’ho vissuta quando ero piccolo, senza esserne consapevole, ma riaffiora nei miei pensieri di tanto in tanto.
Stavo per compiere quattro anni. All’epoca abitavo già in via Rodi, ad Arezzo, ma anziché stare di casa nell’appartamento al secondo piano, dove vivo ancora adesso, e che a quell’epoca era intestato a mio nonno, alloggiavo in affitto in quello all’ultimo piano. Mio fratello non era ancora nato. Sarebbe venuto al mondo due anni più tardi.
L’atmosfera familiare era serena. Nell’appartamento all’ultimo piano eravamo in tre: io, mio padre e mia madre, mentre nell’altro abitavano i nonni paterni. Cominciavo a scorrazzare il condominio in giù e in su, e tutte le scuse per fare le scale, e scendere a trovare i nonni, diventavano buone.
Mio padre insegnava già all’Istituto tecnico industriale Galilei di Arezzo, mentre mia madre, dopo avere insegnato come maestra elementare ed essere stata poi dipendente amministrativa della ditta Konz, era riuscita a ottenere la pensione in anticipo a causa di una menomazione a un braccio provocata da un infortunio domestico.
Non ricordo con precisione il periodo. Quello che rammento, e che i miei genitori mi hanno poi confermato, fu il repentino passaggio da uno stato di generale euforia a una condizione di grande tristezza.
Avevano il desiderio di non farmi sentire solo e, approfittando di una situazione familiare ormai stabile, e del giusto intervallo di tempo dalla mia nascita, avevano deciso di regalarmi un fratellino.
Capivo e non capivo. Riuscivo a intuire la loro gioia e quella dei miei nonni attraverso i loro sguardi e il tono delle loro voci, ma non potevo certo comprendere, fino in fondo, quale fosse il motivo della loro eccitazione. Ricordo che all’improvviso, da un giorno all’altro, tutto cambiò. Iniziarono a parlare di meno, rivolgendomi la parola senza lo stesso entusiasmo di prima, almeno per qualche tempo.
Tutto il resto è il frutto di dialoghi, più o meno intimi, avvenuti diversi anni dopo.
Anna Tosi nacque nella clinica San Giuseppino, la stessa dove tre anni e mezzo prima ero nato io. Rimase al mondo un solo giorno. Era nata di sei mesi e mezzo e manifestò subito notevoli problemi respiratori. La minuscola cassa toracica si dilatava in maniera anomala rispetto a quella normale. È facile pensare che oggi sarebbe, comunque, sopravvissuta, ma le dotazioni mediche e strumentali di allora, meno perfezionate di quelle attuali, non glielo consentirono. Mio padre la rivestì e la depose in una bara minuscola. Aveva i capelli neri e assomigliava a una bambolina con gli occhi chiusi. Fu portata al cimitero cittadino.
Per alcuni anni ho chiesto dove fosse stata sepolta e, quando andavamo a trovare gli altri parenti defunti, domandavo ai miei genitori di andare a cercarla.
Oggi non sarei in grado di riconoscere dove lei sia. Mi limito ad arrivarci col pensiero.