Si sa, tutto quello che è dolce ai bambini piace. E anch’io non facevo eccezione. Cioccolato, dolci fatti in casa, marmellate, e il cabaret di paste domenicali mi mettevano di buon umore. Li ricollegavo a un momento di festa, dove, di solito, ci riunivamo tutti insieme a tavola, nonni compresi. Certo l’assortimento disponibile in quegli anni era più limitato di quello di oggi, ma quando mio nonno paterno rientrava in casa dalla pasticceria con il vassoio incartato (Magi e Morgana erano le più gettonate), capivo subito che c’era ad attendermi qualcosa di buono: o una sfoglia con l’alchermes, o un dito con la crema o più semplicemente una pasta con la glassa, crema o cioccolato che fosse.
Mia madre completava l’opera preparando, di tanto in tanto, i classici dolci fatti in casa – ciambellone o crostata – e questo permetteva di rifarmi la bocca e di avere qualcosa di alternativo alle semplici fette di pane.
Nella letteratura e nella fantasia popolare, l’immagine del dolce si accompagna a qualcosa di piacevole e di proibito allo stesso tempo. Perfino Dante Alighieri dedicò un canto della Divina commedia ai vizi di gola, quasi a volerne rimarcare la loro natura peccaminosa. Come è naturale, quindi, la presenza del dolce in casa, soprattutto in un bambino, rischia di stimolare le fantasie del piacere e invoglia a compiere una piccola marachella pur di entrare in suo possesso. L’occasione, insomma, fa l’uomo ladro e poco importa se esso sia un adulto o un bimbetto.
In via dell’Orto
Questa sensazione, che con un pizzico di fantasia potrebbe essere definita elettrizzante, mi capitava quando andavo a fare visita ai miei nonni materni, Silvana e Gaetano. Abitavano in un palazzo antico in via dell’Orto, in pieno centro storico, a due passi dal comune. Mia nonna era brava a cucinare, preparava di tanto in tanto qualche dolce ma, soprattutto, custodiva una ricca dotazione di caramelle e di cubetti di zucchero nel mobile del salotto. Di tanto in tanto, la vedevo alzarsi dal tavolo della cucina e andare verso la sala, dove apriva il cassetto, si riforniva, e me li portava. Mi sentivo attratto, soprattutto, dagli zuccherini, più morbidi delle caramelle e senza bisogno di essere scartati prima di essere messi in bocca. Avevo verso di loro una naturale simpatia, sia per il gusto in sé, sia perché mi avevano aiutato, qualche anno prima, in una situazione piuttosto impegnativa: erano stati il mezzo con il quale mi era stato somministrato il vaccino antipolio Sabin. Una goccia in una zolletta. Il tutto negli uffici sanitari del comune, a quell’epoca in via degli Albergotti.
Dovevo scoprire, insomma, dove fossero nascosti i cubetti, ma tutte le occasioni erano state senza successo; né potevo contare sull’aiuto materiale di mio nonno, conosciutissimo collezionista di pipe, il quale delegava ogni operazione di natura domestica nelle mani di mia nonna.
Dal pensiero all’azione
Finché, un pomeriggio presi di persona l’iniziativa. Approfittando del fatto che mia madre e mia nonna erano uscite di casa, per andare a passeggio nei vicini giardini del Prato, e nella Fortezza, mi avvicinai al mobile del salone. Lo feci con la sottile complicità di Gaetano, il quale aveva capito tutto facendo finta di non capire. Non so se fosse maggiore il piacere di scassinare la madia del salone o quello di impossessarsi degli zuccherini. Fatto sta che ci provai. Non so in quale modo riuscii ad aprire il cassetto. I cubetti erano contenuti in una scatola di cartone, disposti ordinatamente l’uno accanto all’altro. Alzai il coperchio, ne presi un certo numero, in verità poco quantificabile, e li misi un po’ in tasca e un po’ in bocca. Non conoscevo ancora il significato della parola glicemia. Fatto sta che, al ritorno in cucina, la dimensione della bocca era stranamente dilatata. Gaetano si rese conto di qualcosa ma, anziché comportarsi da carabiniere, continuò a reggere la parte. Si raccomandò di non dirlo a Silvana la quale, pur di non rimproverare me, avrebbe potuto rimproverare lui.
Il segreto scoperto
Mia madre e mia nonna rientrarono in casa poche decine di minuti più tardi. Il cassetto del mobile era rimasto aperto e Silvana chiese spiegazioni a Gaetano. Lui non rispose ma ebbe un cenno di intesa e di complicità verso di me più chiaro di qualunque altro tipo di messaggio. Non ci volle molto a capire che il responsabile del furto ero stato io, come provato dagli altri zuccherini accumulati dentro le tasche, i quali si sbriciolarono a uno a uno un poco per volta.
Il fatto curioso fu che mia nonna continuava a prendersela con mio nonno, come se il sottoscritto fosse stato del tutto estraneo a quanto era accaduto. E continuò a farlo anche dopo, quando ammisi di avere aperto il cassetto e di avere compiuto la cattiva azione.
Ripresi la strada verso casa, con mia madre, dopo che i nonni mi baciarono con l’affetto di sempre.
Mi ero precluso la possibilità di andare a comprare un gelato, ma ebbi la soddisfazione di avere scoperto dove fossero nascoste le zollette, riuscendo a risolvere quello che consideravo essere un segreto di Stato.
Oggi la casa di via dell’Orto è silenziosa e vuota. La porta dell’appartamento è chiusa da parecchi anni. Mi sarebbe piaciuto aprirla e rientrare dentro, anche solo per poco tempo, ma alla fine ho rinunciato. Forse, è naturale che sia così.