Li chiamano in tanti modi: calabroni, bofonchi, vesponi. Forse quest’ultimo rende meglio l’idea e li definisce per come sono: gialli, neri, più grandi di una vespa comune. Si trovano soprattutto in campagna e vengono fuori quando le temperature raggiungono un livello accettabile. Possono usare la canna fumaria per farci i nidi, così come le cavità dei tronchi, le tegole del tetto o l’incavo di un muro. Una cosa è certa: a differenza delle api, non sono il massimo della simpatia e, se qualcuno fosse disposto a tenerli in casa, senza allontanarli, farebbe dubitare della sua consapevolezza.
Proprio alla presenza dei vesponi, è legato uno degli episodi adolescenziali vissuti nella casa di campagna durante l’estate. Era ancora vivo mio nonno, morto nel 1977 a più di novant’anni: si parla, quindi, di oltre quarant’anni fa.
Le estati erano lunghe e, pur facendo qualche viaggetto con i genitori e mio fratello, ero abituato ad alternare le vacanze tra i periodi passati al mare e quelli in campagna. Davo una mano ai miei per come mi riusciva, e passavo le giornate in compagnia di alcuni amici, provenienti dal paese vicino, o dei parenti che ci raggiungevano dalla città per venire a farci visita.
Poiché ciascuno di loro non disdegnava di dare una mano – chi tagliando l’erba, chi sistemando gli attrezzi, chi riassettando la casa – era inevitabile invitarli a cena a giornata finita. L’apparecchiatura era semplice, ma accogliente. Preparare un piatto freddo e unirlo agli affettati e ai formaggi, voleva dire mettere a tavola quindici persone.
Era una sera d’agosto, piuttosto calda. Tutto filava liscio fra la soddisfazione generale, fin quando il tintinnio dei bicchieri e il rumore delle posate fu affiancato, con insistenza, da un ronzio fastidioso. Si intuiva che fossero vespe, ma non si capiva né da dove provenissero, né quali fossero le loro dimensioni. Fatto sta, che questo ronzio diventò sempre più forte: un rumore ininterrotto che non assomigliava certo a una colonna sonora. La cena si interruppe e ciascun commensale zittì sé stesso per rendersi conto di che cosa stesse accadendo. Tutti, o quasi, con la forchetta a metà, iniziarono a guardarsi: nessuno, però, fu capace di fare una diagnosi che andasse oltre le frasi di circostanza. Finché mio nonno, ricordandosi a modo suo l’esistenza del Padre Eterno, si alzò da tavola e si avvicinò al camino.
Il camino era uno di quelli a camera aperta, tipici delle vecchie case di campagna, ma la canna fumaria era stata chiusa da una lastra di metallo scorrevole che veniva riaperta solo nella stagione più fredda, quando il focolare veniva rimesso in attività. Li per lì fece per aprirla, ma le urla dei commensali lo spinsero a desistere: «Colonnello, non lo faccia, non lo faccia» Resta il fatto che, volenti o nolenti, bisognava provvedere. Era necessario trovare una soluzione, anche per le generazioni future! Quella più efficace la propose, punto per punto, uno dei presenti: una sorta di piano di battaglia, così temerario, da essere paragonato a un assalto alla baionetta.
Punto primo: trovare una bacinella di metallo. C’era. Punto secondo: fare provvista di zolfo Nessun problema, lo adoperavamo per medicare le viti e ne avevamo in quantità. Punto terzo: spegnere le lampadine di casa per impedire ai vesponi di essere attratti dalla luce. Il resto era contorno: allontanare i paurosi e far credere loro che il nemico non fosse invincibile. Fatta questa premessa, si passò all’azione. Si trattava di spostare, con delicatezza, la lastra di metallo che separava il focolare dalla canna fumaria, di dare fuoco allo zolfo nella bacinella e di appoggiarlo sulla parte superiore della lastra, per poi richiudere il camino e sperare in bene.
L’operazione si svolse in uno stile tipicamente militare. Mio nonno, colonnello dell’esercito in pensione, dirigeva le operazioni e tutti gli altri, forse anche per la deferenza del ruolo, si limitavano a eseguire quello che lui disponeva.
L’ora X scattò poco dopo mezzanotte. Metà invitati andarono in salotto, altri uscirono addirittura da casa, mentre la pattuglia degli intrepidi, tre o quattro, si avventurò nell’operazione tanto attesa.
Fatto.
Camino richiuso con lo zolfo all’interno. Li per lì non si senti alcun rumore, ma il silenzio notturno rimase di breve durata. Dopo pochi minuti, nel buio della stanza, una pioggia sempre più insistente prese i caratteri di uno scroscio. Lo zolfo aveva fatto effetto. Per almeno dieci minuti, i vesponi cominciarono a venire giù con regolarità impressionante, accompagnata dall’iniziale stupore dei presenti, destinato a trasformarsi in palese soddisfazione. Chi non era in cucina, veniva dal salotto a chiedere informazioni. Dopo dieci minuti era tutto finito. Gli insetti morti giacevano sulla parte superiore della lastra e senza che nessuno fosse caduto nel focolare. Sarebbero stati rimossi il giorno dopo con l’aiuto di un potente aspirapolvere.
Tutto finì con una bevuta e con mio nonno che veniva complimentato dai presenti, come se avesse guidato un esercito nella battaglia. E dire che lui lo aveva fatto davvero in entrambe le guerre. Gli ospiti, dopo l’inevitabile scambio di convenevoli, ripresero la via di casa. E noi a commentare l’accaduto, sotto la luce dei lampioni esterni, di nuovo riaccesi. Un fatto di vita vissuta che mi riporta a tanti anni fa.
E il tempo scorre.