Credo che un buon comunicatore non possa prescindere dalla chiarezza. Un grande direttore di giornale, Giulio De Benedetti, monarca della Stampa per oltre vent’anni, ammoniva sovente i suoi redattori raccomandando loro di essere chiari: «Devono capirvi tutti – diceva loro con toni imperativi – prima di scrivere pensate alla portinaia di casa vostra».
Lo stile di scrittura doveva essere, dunque, semplice e curioso al tempo stesso, brillante quando necessario, ma senza troppi virtuosismi: era raccomandato un uso scarso degli aggettivi, degli avverbi che terminano in «ente» e di quelle parole con la desinenza in «ione». «Sono orrende anche a vedersi», ammoniva De Benedetti.
Le cronache raccontano che, una domenica pomeriggio, un inviato sportivo trasmise agli stenografi il resoconto di una partita di campionato. Le prime due parole dell’articolo erano, in realtà, due avverbi: «pressoché quotidianamente». De Benedetti si catapultò infuriato nel salone della redazione, sbraitando contro quel giornalista e imponendo ai redattori la modifica di quel principio: «pressoché quotidianamente» diventò «quasi ogni giorno».
Questa ricerca della chiarezza è stata una costante della mia attività professionale e lo sarà fino a quando avrò modo di praticarla.
Esiste tuttavia un’altra forma di chiarezza, intrinseca, che non riguarda l’impiego dei termini da utilizzare, quanto, piuttosto, il contenuto dell’articolo. In questo caso, il discorso è più complesso e lo diventa ancora di più quando l’eccessiva semplicità rischia di diventare scomoda.
Devo ammettere che, in questi anni di professione, ho avuto anch’io questo problema, soprattutto nel primo periodo di attività. Chi mi dirigeva, forse per la mia ancora scarsa esperienza, o forse per altre ragioni che non conosco, aveva il timore che fossi troppo chiaro, cioè troppo esplicito, e diretto, nel raccontare i fatti dei quali ero testimone.
Ho un ricordo un particolare risalente alla fine degli anni ottanta. Proprio al termine di quel decennio, fu deciso l’aumento del prezzo della tazzina del caffè. L’argomento era di stringente attualità, se si considera quanto il caffè faccia parte integrante della nostra vita quotidiana e sia perfino irrinunciabile per molti di noi.
Preparai con cura il testo del servizio e scrissi che i veri responsabili di quell’aumento erano i commercianti. Prima ancora di procedere nel montaggio, nel rispetto delle gerarchie aziendali, mi sembrò naturale farlo vedere al mio direttore di allora. Il direttore lesse il pezzo e, allungandosi sulla poltrona del suo ufficio, mi dette una risposta che ancora ricordo: «Il pezzo va bene, ma è opportuno sostituire la parola commercianti. Meglio tu scriva “circuito distributivo”.
Non capii esattamente cosa intendesse. Se avessi adoperato il termine circuito distributivo, l’avrebbero compreso in pochi. Glielo feci notare, un po’ intimidito, e lui ribadì che il termine commercianti era giusto e sbagliato al tempo stesso, quasi a farmi intendere che quella parola, utilizzata in quel modo, volesse colpevolizzare un’intera categoria. «Non vorrai mica mettermi contro i commercianti», chiosò. Feci come volle lui ma, forse, quel caffè mi restò sullo stomaco.