I giovani non trovano un lavoro? Tornino a occuparsi della coltivazione dei campi e riprendano in mano un’attività che, per secoli, è stata quella prevalente del sistema economico nazionale: l’agricoltura.
La frase, pronunciata soprattutto dalle persone di una certa età, riaffiora di frequente quando si parla dei giovani e della loro impossibilità a farsi assumere altrove.
A dire la verità, questo genere di opinione sembra essere espresso in modo quasi istintivo, senza il necessario spirito critico, come se volesse contenere un giudizio implicito sull’incapacità dei ragazzi di costruire il proprio avvenire.
«Vadano nei campi a raccogliere la frutta, oppure prendano la zappa in mano e facciano come i loro nonni, così impareranno presto che cosa significa il lavoro vero», dice loro qualcuno rincarando la dose.
Un parere, dunque, legittimo, ma dai toni eccessivi, se è vero che i giovani contemporanei, pur con le loro problematiche, anche di natura esistenziale, possiedono attitudini né migliori, né peggiori delle generazioni venute prima della loro. Semmai sono diversi, così come è diverso è il mondo che li circonda e con il quale sono chiamati a confrontarsi.
Lo sfogo di questa domenica è dedicato proprio a questo argomento. È giusto considerare il lavoro nei campi come un ripiego, o come l’ultimo pane per garantire un impiego alle nuove leve?
Le storie legate a questo argomento sono molte. Sovente le cronache segnalano vicende personali di giovanotti, appena diplomati, i quali, non riuscendo a sfruttare il proprio titolo di studio e senza trovare un’occupazione adeguata, decidono di avvicinarsi al lavoro nei campi: lo fanno più per la necessità di disporre di un reddito che per scelta di vita individuale.
Ne esistono altri, invece, che hanno la cura della terra nel sangue e, magari, portano avanti le attività già intraprese dall’azienda agricola di famiglia perché sono nati e cresciuti in quella realtà.
Altri ancora, invece, lo scelgono di loro spontanea volontà, mettendo in preventivo il sacrificio di una parte importante della propria vita di relazione.
Credo che il lavoro agricolo non debba essere denigrato da opinioni istintive, né essere considerato come l’ultima frontiera per chi sceglie di imboccare un determinato percorso di vita. È una scelta degna di stima, se compiuta con coscienza e onestà.
D’altronde, la pratica agricola non si improvvisa e presuppone, più che in passato, un bagaglio di conoscenze professionali molto esteso: sono competenze che spaziano dalle tecniche di coltivazione, alla meccanica, alla capacità di gestire i rapporti economici e personali con i fornitori e i venditori. Colui che si avvicina a questo settore ha, pertanto, bisogno di una guida che gli insegni le tecniche del mestiere e i segreti per risolvere quei problemi che affiorano di volta in volta.
L’attività, in epoca moderna, è, dunque, concepita in modo diverso rispetto al passato e mi sembra di poter dire che quelle espressioni, quasi accusatorie, rivolte dagli anziani verso i giovani, rimangano fine a loro stesse.
Si tratta, dunque, di un divario generazionale che, in certi casi, diventa il motivo di discussione. Le generazioni passate faticano a comprendere l’importanza del cambiamento: fioccano i diverbi dati dalle visioni differenti, date dalle diverse esperienze e prospettive per il futuro.
Credo, quindi, che la scelta di un ragazzo di avvicinarsi alla vita nei campi non vada demonizzata, ma sostenuta e incoraggiata.
Mi piace rifarmi a una sottile ma acuta differenza di termini evidenziata da alcuni scrittori contemporanei nelle loro opere: quella che esiste tra «crescere» e venir su».
Crescere dà l’idea di qualcosa di unico e di prezioso, come una pianta che viene fatta attecchire e abilmente coltivata perché si sviluppi armonica e rigogliosa. Venir su, invece, sa tanto di casualità, come se il vero arbitro del futuro fosse il destino.
Sono convinto che il lavoro agricolo aiuti a crescere, perché forgia il carattere sotto molti aspetti. Crescere, dunque, e non venir su.
Buona domenica e scusate lo sfogo.